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Paolo Borsellino: un Eroe dei nostri giorni

 

Il desiderio che non ci fossero più guerre, conseguente all’immane olocausto della seconda guerra mondiale, sembra, ai giorni nostri, praticamente realizzato.

La realtà delle vicende mondiali si prende la responsabilità di dirci che non è proprio così, ma il mondo occidentale, quello che si dà le arie di essere il più avanzato nella civiltà (e forse, almeno nel campo tecnologico, lo è davvero), effettivamente dopo tale guerra non ha più visto conflitti armati sul proprio territorio. In tale contesto è lentamente sfumato il fascino della figura eroica, generalmente legata al rischio della vita connesso con azioni di guerra particolarmente spericolate. Inoltre, una certa retorica (che fortunatamente sta conoscendo un momento di stanca) ha cercato di sminuire il profondo significato del “Valore Militare” calcando troppo la mano sulla negatività della guerra e, per un sillogismo semplicistico, bollando come “negativo” qualsiasi evento o fenomeno ad essa connesso, anche l’eroismo.

Il 19 luglio 2007 è stata ricordata, con una solenne cerimonia svoltasi a Palermo alla presenza delle massime cariche dello Stato tra cui il Presidente del Senato Franco Marini, la figura del giudice Paolo Borsellino nell’anniversario del suo assassinio da parte della mafia. In tale contesto si è molto parlato di “guerra alla
mafia”.

La lotta alla mafia assume i toni e le modalità di una vera e propria guerra, poiché il nemico non intende rispettare alcuna regola se non quella opportunistica dei “rapporti di forze”, però chi parla di “guerra alla mafia” non sa davvero cosa significa tale termine, e purtroppo si tratta di persone che rivestono cariche di grande rilevanza nello Stato.

Proprio la non consapevolezza del significato di “guerra alla mafia” da parte di molti responsabili delle istituzioni ha portato il giudice Paolo Borsellino, e prima di lui il suo collega Giovanni Falcone, a perire in attentati che entrambi sapevano certi ed imminenti per ciascuno rispettivamente.

Ciò non li ha fatti desistere dal condurre le loro inchieste giudiziarie, anzi… Eppure, il coro di elogi e di encomi post mortem udito nella rievocazione di Borsellino era “stonato”.

Tornando con la memoria alla seconda metà degli anni ’80, mentre prima Falcone e poi Borsellino, stavano conducendo coraggiose, e soprattutto molto efficaci, indagini nel settore mafioso con metodi “di guerra” (altrimenti non sarebbero stati eliminati), l’intero Palazzo di Giustizia di Palermo si era messo apertamente contro di loro: i giornali lo chiamavano “Il palazzo dei Veleni”.

Sulle scrivanie dei magistrati “il corvo” faceva comparire lettere anonime che accusavano Falcone di commettere gravi irregolarità e anche qualche reato. L’onnipresente ed onnipotente Consiglio Superiore della Magistratura prese posizioni che legittimamente potevano essere corrette, ma nella sostanza non aiutavano certamente il lavoro di Falcone e Borsellino, che già si svolgeva in un ambito certamente non facile.

Un primo attentato al quale Falcone sfuggì per pura fortuna, venne quasi messo in dubbio da esponenti politici dell’epoca (…questa bomba che esce fuori al momento giusto…).

Dopo l’assassinio di Falcone, la fronda non diminuì di forza e si concentrò nei confronti di Borsellino, che nel frattempo era stato nominato Capo della Procura Centrale Antimafia.

Purtroppo, come sappiamo, Borsellino ebbe la stessa sorte di Falcone poco dopo.

Lo stupore e lo sdegno dei siciliani fu grande: la vedova di Borsellino rifiutò i funerali di stato e le massime cariche dello stato, tra cui il Presidente della Repubblica Scalfaro, presenziarono, tra una folla in tumulto, alle esequie dei cinque poliziotti della scorta.

Oggi come allora i siciliani chiedono un maggiore impegno dello Stato nella lotta alla mafia. Eppure, proprio quando lo Stato ha impegnato due tra i suoi uomini migliori, il “territorio” ha fatto terra bruciata intorno a loro: un’azione bellica in piena regola.
 
Se analizzassimo bene tutto questo, otterremmo due vantaggi immediati: sapremmo che non possiamo battere la mafia con le normali procedure di polizia giudiziaria, ma con vere e proprie azioni di guerra; sapremmo inoltre che chi svolgesse tale compito “in prima linea” correrebbe gli stessi rischi che corrono i militari in zona di guerra e quindi dobbiamo loro lo stesso rispetto, la stessa considerazione e soprattutto lo stesso aiuto, lo stesso sostegno.

Sia Falcone che Borsellino sono due veri eroi del nostro tempo e intendiamo ricordarli insieme, come insieme hanno combattuto.

Ma, nel ricordarli, vorremmo anche che sia finalmente messa in pratica la lezione che essi avevano appreso sul campo ed attuato: la mafia si combatte con regole di guerra, cioè la si attacca nei punti di vulnerabilità e, dopo che si è conseguito il “successo” sfondando la sua linea di difesa, si deve procedere con un’azione vigorosa e duratura di “sfruttamento del successo” spinta fino alle conseguenze più avanzate possibili.

Non si può invece attendere la normale “denuncia” del cittadino che chiede giustizia ed aprire un’inchiesta “limitata” alla fattispecie di reato denunciata.

L’ambiente non permette efficacia a questo modo di procedere, lo rende inutile.

Ecco perché i siciliani chiedono e sperano aiuto da uno Stato diverso.

Quello attuale a loro appare di fatto  inesistente proprio perché applica procedure che funzionano in un ambiente sociale sano ma, in un ambiente degradato, servono solo ad aiutare la mafia a vivere tranquilla ed a scoraggiare i cittadini onesti dal ricorrere alla giustizia.

Antonio Daniele

 

 

Pubblicato sul periodico "Il Nastro Azzurro" n. 4 2007

 

 

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